Identificato un biomarcatore per le atrofie muscolari spinali (SMA), un gruppo di malattie neuromuscolari rare (incidenza da 1/6000 a 1/10000) caratterizzate dalla degenerazione degli alfa- motoneuroni (motoneuroni che controllano la contrazione dei muscoli) del midollo spinale, cellule fondamentali per il movimento. È il risultato di uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Genetica medica dell’Università Cattolica di Roma coordinati da Giovanni Neri insieme a Danilo Tiziano, Anna Maria Pinto e Cristina Brahe.
Tra questi composti vi è anche il salbutamolo, un farmaco comunemente usato nel trattamento dell’asma bronchiale. La sperimentazione degli effetti clinici del composto è attualmente in corso ed è effettuata, insieme ad altri gruppi di ricerca neuromuscolare italiani, dal prof. Eugenio Mercuri dell’Istituto di Neurologia dell’Università Cattolica e dal dr. Enrico Bertini dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Presso l’Istituto di Genetica Medica, mediante l’uso di questa nuova tecnica di genetica molecolare, è stata dimostrata l’efficacia del salbutamolo nell’aumentare i livelli di SMN nei pazienti SMA sia in vitro, su colture cellulari, che in vivo, sul sangue dei pazienti. Sulla base dei dati forniti dall’Istituto di Genetica della Cattolica, l’International Coordinating Comittee, - il comitato internazionale di coordinamento negli USA, che ha come obiettivo l’armonizzazione delle misure di valutazione dei pazienti da usare negli studi clinici sulla SMA, ha indicato la metodica italiana come biomarcatore di riferimento da utilizzare in studi farmacologici su pazienti affetti.
“Per questo motivo - continua il prof. Neri, ordinario di genetica medica della Cattolica – con il supporto del Servizio ricerca dell’Ateneo, si è deciso di brevettare e di realizzare un kit commerciale di genetica molecolare, che verrà prodotto e commercializzato dalla Realgene. Tale marcatore biologico è finalizzato alla valutazione dell’efficacia di terapie mirate a bersagli molecolari della malattia con un metodo basato sulla determinazione simultanea di alcuni marcatori in minime quantità di campione biologico. Sino ad oggi - afferma Neri - i biomarcatori esistenti per monitorare l’effetto di sostanze farmacologiche o di trattamenti medici su pazienti affetti da SMA erano molto limitati e scarsamente efficienti”. “Dal punto di vista clinico, i pazienti affetti presentano debolezza muscolare di grado variabile a carico dei muscoli degli arti e del tronco, senza coinvolgimento dei muscoli mimici del volto e del diaframma. Sulla base dell’età di insorgenza e dell’acquisizione delle tappe motorie vengono distinte tre forme infantili della malattia (SMA Ι-ΙΙΙ)”, spiega il ricercatore di genetica della Cattolica Tiziano. La SMA di tipo Ι, o malattia di Werdnig-Hoffmann, è la forma più grave, insorge nei primi 6 mesi di vita, è caratterizzata dalla mancata acquisizione della posizione seduta ed è la causa genetica più comune di morte in età infantile; la sopravvivenza media è di circa 2 anni. La SMA di tipo ΙΙ, o forma intermedia, esordisce tra 6 e 18 mesi; i bambini affetti acquisiscono la posizione seduta, ma non la deambulazione autonoma. La SMA di tipo ΙΙΙ, o malattia di Kugelberg-Welander, è la forma più lieve, insorge oltre i 18 mesi, ed è caratterizzata da perdita della deambulazione autonoma a età variabile. Il gene responsabile di tutte le forme di SMA è localizzato sul cromosoma 5 ed è stato denominato SMN1 (survival motor neuron gene). Nella specie umana, oltre al gene SMN1, esiste un altro gene quasi identico, denominato SMN2: quest’ultimo produce bassi livelli di proteina SMN funzionale (e anche poche copie dei precursori della proteina, detti “trascritti”). Indipendentemente dalla gravità clinica, il 95% dei pazienti SMA non possiede geni SMN1. Questi pazienti, come dimostrato in precedenti studi effettuati anche dai genetisti della Cattolica, presentano numero variabile di copie di SMN2, in genere da 2 a 4, e un maggior numero di copie correla con minore gravità clinica, sebbene questa correlazione non sia assoluta.
“Il riscontro di questo dato, confermato in diversi studi – aggiunge Tiziano - ha consentito di ipotizzare che nelle SMA la gravità clinica della condizione possa essere modulata dalla quantità di trascritti e proteina SMN presenti nelle cellule bersaglio della malattia, motoneuroni e fibre muscolari, e che livelli maggiori correlino dunque con gravità minore. Sulla base di questa ipotesi, sono stati effettuati negli ultimi anni alcuni studi finalizzati a dimostrare eventuali differenze di espressione dei geni SMN tra pazienti e controlli e, possibilmente, tra pazienti affetti dalle varie forme di SMA. Questi studi sono stati effettuati prevalentemente su campioni di sangue periferico di pazienti o su cellule in coltura. “Per la prima volta abbiamo dimostrato che la quantità di trascritti del gene SNM2 in pazienti affetti da SMA è correlata alla gravità della malattia, anche nelle forme meno gravi”, conclude Neri. “Questi risultati sono stati ottenuti mediante lo sviluppo di una tecnica di quantificazione del trascritto che permette di predire la gravità della malattia e soprattutto di monitorare con precisione gli effetti terapeutici di farmaci candidati al trattamento delle atrofie muscolari spinali”. La ricerca dei biomarcatori Negli ultimi anni, la ricerca biomedica ha impegnato notevoli risorse per l’identificazione di cosiddetti biomarcatori specifici per varie condizioni patologiche. In base alla definizione comunemente accettata, formulata dal National Institute of Health statunitense, viene indicato come biomarcatore “una caratteristica che sia obiettivamente misurata e valutata come indicatore di processi biologici normali, processi patogenetici o di risposta farmacologica ad interventi terapeutici”. Anche nell’ambito delle malattie rare, come negli altri settori della ricerca biomedica, vi è un intenso lavoro per l’identificazione di biomarcatori specifici di una data condizione. Questi ultimi offrono numerosi vantaggi rispetto alle misure di valutazione clinica dei pazienti di tipo convenzionale: 1) non risentono dell’effetto placebo in caso di studi clinici controllati, 2) consentono di confrontare individui clinicamente eterogenei, 3) consentono di differenziare in maniera rapida ed affidabile i pazienti che rispondono ad un dato trattamento dai cosiddetti “non-responder”.