La cirrosi biliare primitiva è una malattia cronica autoimmune del fegato che colpisce le vie biliari provocando colestasi: il sistema immunitario aggredisce le cellule biliari rendendo difficoltoso il drenaggio della bile dal fegato nell’intestino, causandone, quindi, un ristagno nel fegato. E’ una malattia piuttosto rara, che colpisce circa 400 persone ogni milione. Per la prima volta, uno studio multicentrico sulla cirrosi biliare primitiva svolto su 1.400 persone e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Genetics, ha scoperto le basi genetiche della patologia. Si tratta di un primo, fondamentale passo verso lo sviluppo di una cura efficace.
“Lo studio - spiega il dott. Pietro Invernizzi, coordinatore della ricerca e responsabile del Laboratorio di Immunopatologia Epatobiliare dell’Istituto Clinico Humanitas - ha coinvolto un network di circa 30 centri in Italia fra cui Humanitas, centro di riferimento nazionale ed internazionale per la cirrosi biliare primitiva. E’ stato realizzatoin collaborazione con un gruppo di ricercatori della Division of Rheumatology, Allergy and Clinical Immunology della University of California (Davis, USA), dove è stata effettuata la tipizzazione genetica, ed è stato sostenuto dall’NIH - National Institute of Health, istituzione governativa americana che finanzia la gran parte della ricerca scientifica negli Stati Uniti”.
“La cirrosi biliare primitiva, seppur rara - spiega il prof. Mauro Podda, responsabile del Dipartimento di Medicina Interna di Humanitas - può portare a cirrosi fino al trapianto del fegato o, addirittura alla morte. Colpisce principalmente donne fra i 50 e i 60 anni, con un rapporto femmine-maschi di
“Lo studio - spiega il prof. Alberto Mantovani, Direttore Scientifico di Humanitas - ha invece dato luogo ad una nuova prospettiva terapeutica, suggerendo per la prima volta di agire sul problema all’origine della malattia, cioè a livello del sistema immunitario”. Dalla ricerca è, infatti, emerso il legame tra la malattia e alcune regioni genetiche, e le nuove terapie agiranno proprio spegnendo o modulando i prodotti di questi geni. “Una delle regioni è, per esempio - precisa il dottor Invernizzi - quella che comprende il gene dell’interleuchina 12 (IL-12). Grazie a questa scoperta inizieremo a breve studi clinici in cui pazienti con cirrosi biliare primitiva assumeranno farmaci in grado di bloccare l’interleuchina 12, con l’obiettivo di interrompere la progressione della malattia”. Questo studio ha dunque aperto le porte ad un diverso utilizzo di farmaci già sul mercato con indicazioni differenti.
“Il rapido progresso delle tecnologie genomiche, che oggi ha notevolmente migliorato la capacità di sequenziare il genoma umano - spiega il prof. Alberto Mantovani - offre un supporto fondamentale per analizzare il ruolo della genetica in malattie complesse come quelle autoimmuni (fra cui artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, sclerosi multipla), un fenomeno emergente e un grave problema sociale che colpisce per lo più le donne: nel mondo occidentale sono la terza categoria di patologie più comune dopo il cancro e le malattie cardiovascolari”.
“Studi come quest’ultimo pubblicato su Nature Genetics, detti Gwas (Gwas-Genome wide association study, studio di associazione dell’intero genoma) - chiarisce Invernizzi - si realizzano solo grazie al lavoro di squadra di professionisti con competenze diverse tra loro: clinici, genetisti, bioinformatici, biologi molecolari, ognuno con un proprio e fondamentale ruolo. L’obiettivo finale è l’individuazione della predisposizione genetica delle malattie autoimmuni in generale. La ricerca, infatti, fa parte della cosiddetta ‘prima ondata’ di studi genetici Gwas da cui è emerso che esistono regioni genetiche associate a più malattie autoimmuni. Si è, così, delineato un pannello di regioni genetiche, quasi sempre le stesse, associate a queste malattie.
Il nostro gruppo sta ora contribuendo ad una ‘seconda ondata’ con una nuova serie di studi di approfondimento per arrivare all’identificazione delle varianti genetiche alla base dell’autoimmunità in generale e, poi quindi, ad una loro cura efficace. Tra questi, lo studio principale è un progetto internazionale, ImmunoChip project, cui anche Humanitas partecipa, e che si basa sulla tipizzazione fine (fine mapping) di tutte le regioni emerse dagli studi della prima ondata”.