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II sono stati presentati all’ASCO per la prima volta: dimostrano un
miglioramento della mediana di sopravvivenza rispetto alle stime finora
disponibili. “E’ questa un’ulteriore conferma dell’importanza della
ricerca in un’area critica come quella del melanoma metastatico - spiega
il Prof. Paolo Ascierto, Direttore dell’Unità di Oncologia Medica e
Terapie Innovative dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli -: grazie agli
studi su ipilimumab cambieranno i criteri di valutazione dell’efficacia e
della risposta al trattamento, a beneficio dei pazienti colpiti da una
patologia così grave. Ipilimumab è una molecola con un meccanismo
d’azione ‘rivoluzionario’. Agisce infatti a livello delle cellule del
sistema immunitario, attraverso un meccanismo target che rimuove i
‘blocchi’ della risposta antitumorale dell'organismo. Eliminando questi
ostacoli, il sistema immunitario diventa meglio attrezzato nella lotta
contro la neoplasia. Questo modo di agire si rivela efficace soprattutto
nel melanoma, un tumore che in fase metastatica risulta estremamente
aggressivo con una prognosi infausta e per il quale sono tuttora limitate
le opzioni di trattamento”.
dell’epidermide che producono e contengono un pigmento noto come melanina).
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“Dopo 17 anni dal tumore sono qui, ballo e canto, anche per testimoniare che questa malattia si puo’ sconfiggere”.
Sono le parole di Olivia Newton-John, la star di Grease a cui nel 1992 e’
stato diagnosticato un cancro del seno. E che oggi e’ intervenuta al
Convegno dell’ASCO, il più importante Congresso mondiale di oncologia in
corso fino al 2 giugno a Orlando, per raccontare la propria esperienza e
il suo impegno a favore di una maggiore informazione. Sara’ infatti una
delle protagoniste dello show “Kaleidoscope”, in onda il giorno del
ringraziamento sulle prinmcipali Tv statunitensi per sensibilizzazione su
questa malattia. “Noi persone famose possiamo mettere la nostra notorieta’
a servizio della sensibilizzazione e lavorare con i medici per spiegare
l’importanza della prevenzione, della diagnosi precoce,
dell’autoplapazione”. In Italia sono 400 mila le italiane che, come
Olivia, hanno sconfitto il tumore del seno. Donne che dopo la malattia
sono tornate alla vita “normale”: si sposano, divorziano, diventano mamme.
“Sono ormai, per fortuna, un piccolo esercito ma nessuno ha ancora
analizzato con criteri scientifici come stanno davvero - commenta il prof.
Pierfranco Conte, direttore del Dipartimento oncologico del Policlinico di
Modena -. Superato il problema fisico, sono riuscite a reintegrarsi nel
lavoro? Come è cambiato il loro rapporto con il proprio compagno e con i
figli? E quali sono stati gli eventuali effetti a lungo termine delle
terapie? Sono in qualche modo discriminate in quanto ex malate di un “male
incurabile”? Dopo il successo della “Storia di Paula” la fiction in 3D,
realizzata grazie ad un educational grant di Astrazeneca, che abbiamo
promosso e che ha per protagonista proprio una donna guarita, gia’
diventata un gruppo su facebook, vogliamo ora verificare come vivono le
migliaia di “Paula” italiane. Lo faremo con una ricerca che partira’ a
fine giugno promossa in tre centri di eccellenza, oltre al Policlinico di
modena, il Regina Elena di Roma e l’IST di Genova”. Sara’ la prima al
mondo realizzata con criteri scientifici, si concludera’ entro ottobre e e
diventera’ oggetto di una pubblicazione su un’importante rivista
internazionale”. Lo studio, promosso dall’Associazione per la Ricerca e
l’Educazione in Oncologia (AREO), presieduta da Conte, prenderà in esame
in particolare tre aspetti: sanitario, lavorativo, psico-sociale. Gli
oncologi dei 3 centri intervisteranno 150 donne, per valutare con dei
questionari l’impatto a lungo termine dei trattamenti e le eventuali
limitazioni per la vita affettiva, sessuale, sociale, derivanti dalla
malattia o dalle problematiche psicologiche.
Il progetto, proprio per le sue finalità, gode del patrocinio del
Ministero per le Pari Opportuità e diventera’ a ottobre un libro da
distribuire nelle librerie dedicato a raccontare “in positivo” le
esperienze di donne che “ce l’hanno fatta”, con testimonianze dirette e
gli interventi dei piu’ autorevoli oncologi italiani. Il tumore della
mammella, che colpisce oltre 35.000 persone ogni anno nel nostro Paese, se
viene diagnosticato quando è inferiore al centimetro, guarisce nel 95% dei
casi. “Dopo aver sperimentato linguaggi innovativi, come il DVD o facebook
– commenta Francesco Cognetti, Direttore dell’Oncologia al regina Elena di
Roma e past president della Fondazione AIOM – vogliamo ora rivogerci alle
donne con 2 strumenti piu’ tradizionali: da un lato lo studio,
indispensabile per cogliere problemi e fenomeni medici e sociali.
Dall’altro, un volume per dare voce alle tante esperienze di ritorno alla
vita e dimostrare che e’ possibile superare con successo la malattia e
trarne nuova forza. C’e’ chi ha portato a termine una gravidanza pur se in
terapia, chi ha scelto di avere o adottare un figlio – e ha combattutto
una battaglia per riuscirci – chi e’ riuscita a superare le difficolta’
del reinserimento al lavoro. Donne famose e non, perche’ e’ importante
convincere la popolazione che il tumore sta diventando sempre piu’ una
malattia cronica: in Italia un malato oncologico su 2 e’ vivo dopo 5 anni.
Questi messaggi devono essere ribaditi con fermezza da noi oncologi, ma e’
fondamentale che vengano anche confortati dalle testimonianze dirette, la
migliore prova del successo della strategia integrata formata da
prevenzione e terapie sempre piu’ mirate”.
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Advances in the treatment of cancers that primarily affect women were released today at a
press briefing at the 45th Annual Meeting of the American Society of Clinical Oncology (ASCO).
“The studies presented today demonstrate continued progress against breast, ovarian and cervical cancers,
which are major causes of cancer mortality worldwide,” said Eric P. Winer, MD, Chair of ASCO’s Cancer
Communications Committee, professor of medicine at Harvard Medical School, and moderator of the briefing.
“One study tells us that women can safely avoid unnecessary blood tests and can delay toxic treatment for
ovarian cancer recurrence without compromising their longevity. Others report on a promising new class of
targeted drugs for some of the most difficult-to-treat breast cancers. And others provide more effective and
less invasive options for treating cervical cancer, which is a particularly significant problem in developing
countries.”
Studies highlighted in the press briefing include:
• No survival advantage to treating ovarian cancer relapse based on rising CA125 levels, compared
with waiting for symptoms: A study featured in ASCO’s plenary session reports that starting treatment
immediately for an ovarian cancer relapse based on CA125 protein levels found in the blood does not
improve overall survival, compared with delaying treatment until symptoms arise. The findings should
allow women to avoid the anxiety and cost associated with frequent blood testing and the toxicity of
early treatment.
• PARP inhibitors show promise for hard-to-treat breast cancers: Two studies, including one featured
in ASCO’s plenary session, report promising data on a new class of targeted drugs called PARP
inhibitors. The plenary study reports that women with hard-to-treat “triple-negative” breast cancer
who received the PARP inhibitor BSI-201 along with conventional chemotherapy had better outcomes
than women who received chemotherapy alone. A second study reports that women with BRCA-
deficient advanced breast cancer experienced tumor shrinkage after receiving the PARP inhibitor
olaparib as a single agent.
• Gemcitabine plus chemoradiation improves cervical cancer survival: Adding the drug gemcitabine
(Gemzar) to cisplatin-based chemotherapy and radiation therapy extends overall survival among women
with locally advanced cervical cancer. This study was primarily conducted in developing countries, where
cervical cancer screening programs are limited.
• Sentinel node biopsy is an effective option for early-stage cervical cancer: Most women with early-stage
cervical cancer can safely undergo sentinel node biopsy – a technique in which only one or two lymph
nodes are removed to determine whether cancer has spread – in lieu of the traditional, more invasive pelvic
lymph node removal, which can lead to more significant side effects. Sentinel node biopsy was also as
effective for detecting cancer spread to atypical areas of the pelvis.
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Researchers have shown that use of hormone therapy with estrogen plus progestin increases the risk of dying from
non-small cell lung cancer (NSCLC) in women with the disease. Lung cancer is the leading cause of cancer death
in U.S. women.
These findings are based on secondary analyses from the Women’s Health Initiative, a randomized, placebo-
controlled clinical trial evaluating the health effects of conjugated equine estrogen (CEE) plus
medroxyprogesterone acetate (MPA) in 16,608 mostly healthy postmenopausal women.
Previous research suggested that hormones play a role in non-small cell lung cancer because women tend to have
higher survival rates than men and respond better to certain therapies. However, this is the first study to examine a
specific correlation in a randomized clinical trial setting.
“Many women entering menopause have symptoms that make them consider hormone therapy,” said Rowan
Chlebowski, MD, PhD, a medical oncologist at the Los Angeles Biomedical Research Institute at Harbor-UCLA
Medical Center and the study’s lead author. “We already know that combined hormone therapy has more risks than
benefits, including a higher risk of stroke and breast cancer, the most common cancer in U.S. women. The link we
describe between hormone therapy with CEE plus MPA and death from non-small cell lung cancer should
influence discussions between physicians and women considering hormone therapy use, especially for those with a
smoking history.”
This study looked at non-small cell lung cancer incidence and mortality during 5.6 years of intervention with
hormone therapy or placebo and 2.4 years of additional follow-up. While there was no significant difference in
NSCLC incidence between the two randomized groups, mortality after a NSCLC diagnosis was significantly higher
in the combined hormone therapy group: women in the hormone therapy group were 61 percent more likely to die
from non-small cell lung cancer than women in the placebo group (67 versus 39 deaths, respectively).
The researchers noted that the magnitude of the mortality risk of CEE plus MPA use in current smokers raises
particular concerns. The researchers report that one in 100 current smokers in the trial using combined hormone
therapy experienced an avoidable death from non-cell lung cancer during the eight years of this study. The
mortality rate was 3.4 percent among smokers in the hormone therapy group, versus 2.3 percent among smokers in
the placebo group over the 7.9 year study period.
Researchers noted that study strengths include the randomized, double-blind study design and the large, ethnically
diverse population; limitations include the secondary nature of the analyses as these findings were not a primary
objective of the trial. The researchers suspect their finding will prompt reconsideration of the risk-to-benefit
balance of combined hormone therapy use for menopause symptoms and prompt further studies, both preclinical
and clinical, on hormonal effects in NSCLC.
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An international team of researchers has shown that adding erlotinib (Tarceva) to bevacizumab (Avastin) maintenance therapy after initial treatment with chemotherapy and bevacizumab in patients with advanced non- small cell lung cancer delays disease progression better than bevacizumab alone.
“There is ongoing interest among medical oncologists about the potential role of maintenance therapy for patients with advanced non-small cell lung cancer,” said Vincent A. Miller, MD, Associate Attending Physician on the Thoracic Oncology Service at Memorial Sloan-Kettering Cancer Center and lead author of the study, known as
ATLAS. “Bevacizumab is a core component of the treatment of advanced non-small cell lung cancer (NSCLC), and we’ve shown here we can delay progression with the addition of a targeted agent, erlotinib. Critical future work will try to determine which patients will get the greatest benefit from this combination, based in large part on the identification of genetic biomarkers.”
Maintenance therapy, a relatively new concept in NSCLC, refers to the continuation of one or more agents of a chemotherapy regimen but not the whole regimen to delay progression of disease and potentially improve survival
after patients have received several months of stronger standard chemotherapy, which can carry significant side effects. This is the first study to show that adding erlotinib to maintenance therapy with bevacizumab delays disease progression in patients who have already received bevacizumab as part of their initial chemotherapy. Both bevacizumab and erlotinib have fewer side effects than traditional cytotoxic chemotherapy.
Previous research has shown that bevacizumab along with chemotherapy improved progression-free and overall survival among patients with advanced, metastatic, or recurrent non-squamous NSCLC when compared to chemotherapy alone. In that study, bevacizumab was continued after chemotherapy until disease progression. The
purpose of the current study was to determine if progression could be further delayed by the addition of erlotinib.
In this randomized, double-blind, phase III trial, 768 patients were randomized to receive bevacizumab plus erlotinib or bevacizumab plus placebo. All patients had already received four cycles of chemotherapy and bevacizumab as first-line therapy. Patients who had not progressed then continued bevacizumab and were blinded
and randomized to receive placebo or erlotinib.
This study reports the results of the trial’s second planned interim analysis of the data, which identified a statistically significant improvement in efficacy, favoring the erlotinib group; the trial was stopped early based on these findings. Patients in the erlotinib group experienced a 29 percent reduced risk of disease progression. Median
progression-free survival (the time it took for the cancer to get worse) was 4.8 months for patients in the erlotinib plus bevacizumab group, compared with 3.7 months for patients in the bevacizumab-placebo group. There were no
unexpected side effects in either arm.
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Obesità, abuso di alcool e droghe e disagio giovanile sono le maggiori insidie per i nostri adolescenti: un terzo è sovrappeso, il 31% delle ragazze con meno di 15 anni beve due o più unità alcoliche al giorno (il 25% dei maschi), un genitore su sei segnala episodi di prepotenza nella classe frequentata dal figlio. Problemi che originano nell’infanzia. “La prevenzione comincia nei primissimi anni di vita e il pediatra può svolgere un ruolo cruciale – afferma Giuseppe di Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS) in occasione del XXI Congresso nazionale a Siena -. La corretta alimentazione è determinante per evitare lo sviluppo di obesità in età giovanile e da adulti. Tra i momenti chiave vi è il periodo prenatale, per le influenze esercitate dallo stato di salute e dalle abitudini materne sulla crescita e sullo sviluppo del metabolismo fetale e il primo anno di vita, per gli effetti protettivi dell’allattamento al seno, per l’apprendimento di modalità e comportamenti alimentari da parte del bambino con lo svezzamento (intorno al sesto mese), per i possibili effetti negativi di una dieta iperproteica. In questo vanno educati non solo i piccoli, con progetti da sviluppare nelle scuole, ma soprattutto i genitori, che devono modificare il proprio stile di vita. Il rischio di obesità nel bambino triplica se ha un genitore in questa condizione, decuplica se lo sono entrambi”. L’educazione alimentare è uno dei temi chiave del Congresso, che vedrà riuniti a Siena fino al primo giugno oltre 250 esperti provenienti da tutte le aree che si interessano di benessere infantile: medici, infermieri, igienisti, ma anche insegnanti. “La nostra Società scientifica si connota infatti per un approccio trasversale ai temi della pediatria, e una forte componente sociale – continua Di Mauro -. Con il ministro della Pubblica Istruzione stiamo ad esempio lavorando molto sul bullismo, nell’ambito della Commissione Nazionale per la prevenzione del disagio adolescenziale. Il pediatra opera infatti in una posizione privilegiata per individuare le problematiche psico-sociali, riconoscere precocemente le condizioni di difficoltà, creare una rete di protezione intorno al ragazzo. E può giocare un ruolo attivo per trasformare il piccolo ‘spaccone’ in leader positivo”.
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Il 29% dei piemontesi ha l´abitudine al fumo di sigaretta, con una prevalenza di uomini (35%) tra i 25 e i 34 anni (39%) in condizioni economiche molto difficili (42%) I dati, resi noti in occasione della Giornata mondiale della lotta contro il fumo, che si svolgerà, come ogni anno, il 31 maggio, sono il frutto di un´indagine svolta tra giugno 2007 e marzo 2008 dal sistema di sorveglianza Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia). La raccolta dei dati è avvenuta attraverso circa 5 mila interviste telefoniche effettuate in tutte le Asl del Piemonte tra un campione di cittadini di età compresa tra i 18 e i 69 anni. In media, il numero dichiarato di sigarette fumate ogni giorno è 13, che cresce fino a 20 nell´8 per cento dei fumatori. Entrambi i valori sono in linea con quelli nazionali. Il 59% dei fumatori dichiara di aver ricevuto il consiglio di smettere da un medico o da un operatore sanitario. Nel periodo considerato il 38% dei fumatori ha tentato di smettere, ma soltanto il 2% ci è riuscito da più di 6 mesi e il 4% da meno di 6 mesi. Sul totale del campione di riferimento il numero di ex fumatori è pari al 21% Il 96% di chi ha smesso lo ha fatto da solo, senza alcun sostegno. Il 26% degli intervistati riferisce che nella propria abitazione si può fumare ma, nei tre quarti dei casi, questa abitudine è consentita soltanto in determinate stanze, orari o situazioni. Il divieto di fumare nei locali pubblici è rispettato dal 93% circa dei piemontesi, a fronte dell´88% degli italiani. Il 91% non fuma sul luogo di lavoro. Fumatori Ex fumatori Non fumatori 29% 21% 50% Sesso Maschi Femmine 35% 23% Età 18-24 anni 25-34 anni 35-49 anni 50-69 anni 38% 39% 31% 20% Condizioni economiche Molte difficoltà Qualche difficoltà Nessuna difficoltà 42% 32% 24% Fumatori che hanno tentato di smettere 38% Fumatori che hanno smesso da più di 6 mesi 2% Fumatori che hanno smesso da meno di 6 mesi 4% TABELLA 1 - ABITUDINE AL FUMO DI SIGARETTA
TABELLA 2 - IDENTIKIT DEL FUMATORE PIEMONTESE
TABELLA 3 - TENTATIVI DI SMETTERE NEGLI ULTIMI 12 MESI
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Che diabete e malattie cardiovascolari siano strettamente collegati tra loro non è un mistero. Anzi, sono molteplici le dimostrazioni del ruolo che il diabete con glicemia fuori controllo - tecnicamente, con emoglobina glicata (HbAc1) stabilmente superiore al 7% - ha nel rischio di andare incontro a disturbi cardiaci come angina, coronaropatia, infarto o a ictus. Ora, i risultati preliminari dello Studio DYDA (Left ventricular DYsfunction in DiAbetes), promosso dai Centri Studio dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO), presentati in anteprima al XVII Congresso nazionale AMD in corso a Rimini, hanno decretato che il nemico più subdolo per il cuore diabetico non è l’infarto, ma lo scompenso cardiaco. Una forma di malattia cardiaca in grande espansione, che di fatto è la prima causa di mortalità nel nostro Paese (più di 270 i morti al giorno) e rappresenta il maggior costo in assoluto per degenza ospedaliera: oltre 600 milioni di euro ogni anno, con più di 500 ricoveri al giorno. I ricercatori di AMD e ANMCO hanno infatti messo in evidenza, in uno studio epidemiologico, che 1 persona con diabete su 2 mostra segni ecocardiografici di disfunzione ventricolare sinistra, la porta d’ingresso nello scompenso cardiaco, senza mostrare alcun sintomo o aver manifestato precedentemente alcun disturbo cardiaco. “Abbiamo visitato 960 persone con diabete e abbiamo scoperto che circa il 50% di loro mostrava disfunzione ventricolare sinistra, l’anticamera dello scompenso cardiaco,” ha detto Marco Comaschi, coordinatore, insieme a Carlo Giorda e Mario Velussi, dello studio per conto del Centro studi AMD. “Non solo. Abbiamo visto che peggiore è il controllo della glicemia, maggiore è il rischio di scompenso cardiaco, e che il rischio aumenta al crescere di sovrappeso, circonferenza della vita e ridotta attività fisica, ciascuno considerato un fattore di rischio assolutamente indipendente,” ha proseguito. Lo studio DYDA, iniziato nel 2007, intende valutare proprio il rapporto tra diabete e scompenso cardiaco e quali siano le condizioni associate alla comparsa di questa grave complicanza cardiovascolare in chi già soffre di diabete, cioè oltre 4 milioni di Italiani. I risultati definitivi sono attesi per il 2011.
Scritto alle 17:46 | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)