Al primo gennaio 2006, un italiano su 5 (19,8% della popolazione) aveva oltre 65 anni; di questi, 1 su 2 unetà compresa tra 65 e 75, 1 su 3, tra 75 e 85; 1 su 9 oltre 85 anni. Naturalmente, come ci si può attendere, prevale in tutte queste classi e sottoclassi il sesso femminile, che costituisce il 58,4% degli ultrasessantacinquenni. Lo si rileva da unA elaborazione dei dati Demo ISTAT.
Gli ultrasessantacinquenni sono una risorsa nascosta per il paese. A una condizione: che salvaguardino la loro salute e la mantengano il più a lungo possibile. La longevità è una risorsa per la società, se diventa longevità di successo che possa determinare ricchezza e si perpetui attraverso i corretti stili di vita, lesercizio fisico, i controlli sanitari, che garantiscono una buona qualità di vita e capacità dazione. Altrimenti, longevità rischia di trasformarsi in invecchiamento, che porta con sé crescita delle malattie croniche con conseguente disabilità. E aumento dei costi sociali per il sistema. In queste parole sono riassunte, secondo Roberto Bernabei, Chairman di Alleanza per la Salute & il Futuro e Presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, alcune delle principali conclusioni emerse dalla manifestazione organizzata al CNEL - Consiglio Nazionale per lEconomia e il Lavoro, da Alleanza per la Salute & il Futuro.
Alleanza per la Salute & il Futuro è il capitolo italiano dellorganizzazione internazionale Alliance for the Health & the Future, specializzata nella ricerca sulle tendenze legate allinvecchiamento e alle sue implicazioni economiche e sociali. Attiva in Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, e con una sede a Bruxelles per i rapporti con lUnione Europea, lAlliance ha lobiettivo di favorire la conoscenza di ogni aspetto che possa influire sul mantenimento di una longevità di successo, con particolare attenzione alla salute, ma anche allimpiego produttivo.
E risaputo che lItalia è percentualmente il paese più vecchio del pianeta, con unaspettativa di vita tra le più elevate: 83,2 anni per le donne e 77,3 per gli uomini. Inoltre, secondo le previsioni Eurostat, laspettativa di vita nel 2050 crescerà a 88,8 anni per le donne (+ 5,6 anni rispetto ad oggi) e a 83,6 anni (+ 6,3) per gli uomini, con un incremento della popolazione ultrasessantacinquenne al 34,4%. E ciò a fronte di una fascia di popolazione tra i 25 e i 64 anni che si ridurrà al 42% dal 55% attuale.
Ma quale è il limite anagrafico oltre il quale si è considerati vecchi, oggi?
Una risposta può venire dallanalisi dello stato di salute o meglio di indipendenza. I dati dello studio ILSA, condotto alcuni anni fa per determinare, tra le altre variabili, il grado di disabilità della popolazione italiana cosiddetta anziana - dice Roberto Bernabei hanno mostrato che sino ai70 anni il 90% della popolazione, senza differenze di sesso, è assolutamente indipendente. E il dat sfiora l 80% nei settantacinquenni. Hanno sì qualche acciacco, ma nulla più. E dopo, che la situazione peggiora rapidamente. Questo dato prosegue Bernabei è confermato da uno studio pubblicato su The Lancet nel 2001, che indagava, in 191 nazioni, laspettativa di vita attiva. Poneva lItalia ai primissimi posti dopo il Giappone, in cui si è attivi sino a 74,5 anni, lAustralia, la Francia e la Svezia (73,1-73,2), a pari merito con la Spagna (72,7-72,8), ma molto prima degli Stati Uniti, classificati al 24 posto con unaspettativa di vita attiva di solo 70 anni. Per dovere di cronaca, allultimo posto sta la Sierra Leone con un drammatico 25,9 anni.
E difficile dire, specie nel mondo contemporaneo, quando si è vecchi. Secondo Einstein, una persona è vecchia quando i suoi rimpianti superano i sogni. E una bellissima definizione, anche se poco scientifica, aggiunge Antonio Golini. Volendo prendere come soglia lo scoccare del 75 compleanno, allora si possono definire anziane le persone tra i 65 e i 74 anni e vecchie quelle di 75 anni e più.
Da un punto di vista pratico, ciò significa che, in Italia, anziani e vecchi più o meno si equivalgono: abbiamo poco più di 6 milioni di anziani (pari al 10,5% della popolazione) e circa 5,5 milioni di vecchi, pari al 9,3%. Liguria con oltre il 13% di vecchi, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Friuli Venezia Giulia, intorno all11%, Molise, Piemonte e Abruzzo, oltre il 10, sono nellordine le regioni più vecchie; al contrario, Campania (circa 7%), Provincia di Bolzano, Puglia e Sardegna, le più giovani.
Quindi, sino ai 74 anni per gli esperti non si è vecchi. Nonostante ciò, secondo lOCSE - Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e Sociale, ad oggi i lavoratori italiani lasciano prima il lavoro rispetto agli altri colleghi OCSE, tanto che solo il 56% degli uomini detà compresa fra 50 e 64 anni è ancora in attività lavorativa ufficiale. E la percentuale cala al 27% per le donne (rispettivamente il 13% e il 21% meno della media OCSE).
Al di là del peso che ciò provoca sulla crescita economica e sulla spesa pubblica (già alta rispetto agli altri Paesi OCSE), per un sistema pensionistico italiano particolarmente costoso, e sostanzialmente incentivante allabbandono del lavoro - il che spiega le ragioni di un ritiro da giovani - è fondamentale cambiare questa tendenza. Avere per 10 e più anni una popolazione potenzialmente attiva in fase dinattività è uno spreco di risorse enorme, oltre che un ulteriore fattore di rischio economico. Una persona non più attiva, o estromessa da un sistema attivo, ha un rischio più elevato di ammalarsi e quindi di aggiungere un ulteriore costo per la comunità, trasformando il processo in un circolo vizioso, dice Bernabei. Al contrario, il mantenere le persone attive più a lungo ha inequivocabili vantaggi sia per lindividuo sia per il sistema, bisogna trovare il giusto equilibrio.
Che cosa fare dunque? E evidente che bisogna agire in più settori: il sistema del lavoro e quelli educativo e sanitario, continua Bernabei. Innanzitutto, bisogna mettere a punto subito politiche efficaci per modificare il sistema pensionistico, ma anche dispositivi che consentano di mantenere occupati i lavoratori più a lungo. Daltronde, come ha spiegato durante il convegno di Alleanza per la Salute & il Futuro Domenico De Masi, professore di sociologia del lavoro presso lUniversità di Roma La Sapienza, siamo di fronte a una trasformazione epocale che ci porta dalla società industriale, basata sulla produzione in serie di beni materiali, a quella postindustriale, basata sulla produzione di beni immateriali: idee servizi, informazioni, simboli, valori, estetica. Ciò comporta una serie di modificazioni anche nel mondo del lavoro, che diventa sempre meno fisico, più flessibile e creativo, più destrutturato nel tempo e nello spazio grazie al telelavoro, con maggiori possibilità di poter sfruttare qualità come lesperienza e la competenza, che caratterizzano lavoratori più anziani.
Poi diventa fondamentale puntare alleducazione e alla responsabilizzazione, insegnando a tutte le generazioni a farsi carico della propria salute attraverso modifiche dello stile di vita, e allorganizzazione di un sistema sanitario che preveda quegli screening (dalla mammografia al PSA, dal sangue occulto nelle feci al controllo semestrale della pressione arteriosa etc) che hanno dimostrato di avere definiti effetti preventivi e di migliorare la qualità della vita affrancandoci il più possibile dalle malattie. Questo libera risorse che debbono essere destinate alle cure che inevitabilmente prima o poi vanno fornite ai tanti che diventano vecchi con la conseguenza obbligatoria di creare disabilità, spiega ancora Bernabei.
Solo utilizzando la risorsa costituita dagli ultrasessantacinquenni si potrà riequilibrare un Paese che diventa sempre più vecchio e rischia altrimenti di non poter sostenere i costi crescenti legati allassistenza e alla previdenza.